Capitolo Terzo

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Il comandante della Truppa era infuriato, e aveva buoni motivi per esserlo. La giornata era cominciata nel peggiore dei modi, cioè con una lettera dal Nord. Nella lettera, se si escludevano le sottigliezze burocratiche e le formule di cortesia, c’era scritta una sola cosa: muovetevi.

A quanto pareva, i guai di cui si era sentito parlare erano molto più seri di quanto temesse, e nel rapporto ufficiale che gli era stato allegato alla lettera la metà delle città del Nord erano segnalate in stato d’assedio.

Nessuno sapeva chi fossero gli attaccanti: nessun messaggero poteva tentare di portar notizie all’esterno senza venire massacrato dai misteriosi nemici. Le poche pattuglie che riuscivano a raggiungere una discreta vicinanza con le città in questione – ed erano veramente poche: nel Nord gli insediamenti sorgevano molto vicini fra loro, e chi voleva controllare la situazione di un paese finiva spesso nelle mani di chi assediava quello vicino – ritornavano con verbali confusi, testimonianze discordanti in tutto tranne che in un solo particolare: non si era mai visto un cielo tanto nero, in nessuna notte né giorno dell’Era Pacifica.

I fanatici avevano cominciato a barricarsi in casa, e le strade si riempivano ogni giorno di falsi profeti che annunciavano la fine di Ethundel come se fosse ormai prossima: questo non favoriva certo il compito di quanti, governanti in testa, cercassero di tranquillizzare la popolazione e di sedare le rivolte.

Queste ultime, poi, erano ormai all’ordine del giorno in quasi tutti i grandi agglomerati del Nord. Scoppiavano di frequente, violentemente e senza motivo. Bastava che uno straniero entrasse in un paese troppo vicino ad un altro già assediato, ed ecco che veniva accusato di essere una spia del nemico, infiltratasi per ottenere tutte le informazioni che sarebbero poi tornate utili al momento dell’attacco.

Le tensioni fra le varie città, specie fra le più importanti, andavano aumentando di giorno in giorno. Ogni governante era pronto ad accusare il vicino delle stragi avvenute nel Nord, nonché di aver aizzato la popolazione del proprio territorio contro di lui.

E così in ogni città, mentre i commerci erano diventati quasi impossibili e il popolo pativa la fame. Il Nord era ormai territorio di guerra: ma chi si stesse combattendo nessuno lo sapeva.

 

Dato che ogni paese aveva stipulato, nei tempi ormai remoti dell’Era delle Guerre, dei patti di alleanza con un altro paese, allo scopo di ottenere rinforzi nel caso di un attacco, gli archivi vennero rivoltati e le vecchie carte spolverate. Così quasi tutte le città del Sud si trovarono costrette a spedire i loro guerrieri migliori affinché infoltissero le schiere della Truppa, pronta ad affrontare l’oscura minaccia che stava facendo crollare una dopo l’altra le fortezze del Nord.

Purtroppo non tutto stava andando come previsto: i maschi in forze erano meno di quanto ci si aspettasse, e molti fra di loro avevano preferito disertare. Ed era proprio questo il problema che maggiormente teneva occupato i pensieri del comandante.

Aveva sperato, mentre si dirigeva verso il Sud delle Terre Felici, che in quelle zone di agricoltori gli uomini fossero abbastanza robusti e temprati dalla vita nei campi; inoltre credeva che fossero più facili da convincere, e che temessero il Potere Centrale abbastanza da eseguire i suoi ordini senza troppe esitazioni e domande. Non aveva tenuto in conto un solo fattore: la paura.

I contadini del Sud erano fin troppo abituati a vedere i loro animali spegnersi tra atroci sofferenze: fosse un cavallo caduto in un fosso che non riuscisse più ad uscirne o una mucca colpita da un palo nel ventre, sapevano bene quanto la morte potesse essere dolorosa, e la temevano.

Nonostante ciò, la Truppa era partita verso il Nord, e stava marciando con passo spedito: il comandante contava di arrivare ai primi territori assediati entro una settimana, quindi imponeva ai soldati e agli animali da soma dei ritmi frenetici.

Quando scendeva la notte, e si cominciavano a preparare gli accampamenti, non era raro vedere alcuni uomini addormentati vicino al paletto che avrebbero dovuto piantare in terra.

 

Uno dei soldati che si trovava più di frequente in una posizione simile era Swehn, probabilmente quello che poteva vantare il minor numero di primavere trascorse.

Era stato avvertito della convocazione solo pochi minuti prima della partenza, dal comandante in persona. Anche volendo, non sarebbe riuscito a disertare: certo, i soldi non gli mancavano, avrebbe sempre potuto tentare di corrompere il comandante, ma quando l’aveva visto gli era stato chiaro che con un tentativo simile poteva solo peggiorare la sua condizione.

Aveva sempre vissuto agiatamente nella casa di campagna che suo padre gli aveva lasciato, godendosi nel modo migliore il denaro dell’eredità, cioè non facendo assolutamente nulla che non gli fosse gradito. Era l’uomo più ricco della città: poteva permetterselo.

Com’era ironico, invece, trovarsi nella situazione di non poter trarre vantaggi dalla propria ricchezza! Essere costretto a marciare per ore, sia sotto il sole cocente che sotto la pioggia scrosciante, obbligato a fare qualcosa che non gli piaceva, e peggio doverlo fare sotto gli occhi derisori di tutto il resto del paese!

Con il fisico poco abituato agli sforzi, stancarsi per lui era facile come respirare: che invidia, vedere i compaesani che reggevano la fatica a testa alta, e rendersi conto che la forza non si può comprare a nessun prezzo!

Dopo tre soli giorni di marcia, quando la carovana arrivò in vista di un paese, in lui non c’era più nulla che ricordasse lo Swehn di prima: sotto la rozza armatura di pelle, di taglia troppo grande per lui, tutto ciò che si riusciva a vedere era un omino impaurito, distrutto dalle troppe notti insonni, smagrito per via degli scarsi pasti destinati ai soldati, che viveva costantemente guardandosi le spalle dai suoi commilitoni.

La breve pausa nel paese si rivelò la parte migliore del viaggio: dato che stavano viaggiando con quasi mezza giornata di anticipo rispetto alle previsioni, il comandante concesse a tutta la Truppa di trascorrere la notte lì.

A Swehn non parve vero di potersi fare un bagno caldo, di bere una tazza di brodo e di dormire in un letto degno di tale nome: anche per questo, la mattina successiva, gli sembrava che la notte fosse stata troppo breve.

 

Durante la marcia del giorno successivo, la mente del soldato si soffermò a lungo sull’idea di disertare. Gli sembrava assurdo dover proseguire in quella marcia insostenibile, per arrivare dove, poi? In un campo di battaglia, dove probabilmente il suo cadavere sarebbe andato ad ingrossare il già enorme mucchio formato dai corpi di quelli che erano partiti prima di lui.

In fondo, cosa aveva lui da spartire con un patto d’alleanza firmato secoli prima della sua nascita? Nulla! E allora poteva benissimo girarsi e tornare al suo paese, per potersi di nuovo crogiolare nella ricchezza e non avere pensieri.

Ciò che gli serviva era un buon piano. Anzi, un ottimo piano: sapeva bene già da prima della partenza, e ne aveva avuto conferma durante i giorni di viaggio, che i suoi superiori non erano corruttibili. Fedeli al loro comandante fino alla morte, conoscevano benissimo la necessità di una squadra numerosa per affrontare la battaglia che li attendeva, e piuttosto che aiutare un soldato a disertare si sarebbero fatti tagliare una mano.

Inutile anche tentare di convincere, magari non solo con l’uso della pura retorica, i suoi compagni: per la maggior parte venivano dal suo stesso paese, e lo odiavano per la ricchezza che aveva ostentato negli anni.

L’unica sua speranza era quindi che l’occasione di fuga si presentasse da sola, e che lui fosse abbastanza rapido a coglierla.

 

Contrariamente alle sue aspettative, l’occasione che attendeva si presentò abbastanza presto. Era un giorno come gli altri, un giorno di marcia sfiancante attraverso le pianure assolate che portavano dal Sud al Nord delle Terre Felici.

Nonostante l’eterna primavera, vestiti con l’armatura di cuoio e gravati da fardelli quasi pari a quelli assegnati agli animali da soma, i soldati sudavano e imprecavano. Si stava avvicinando la sera, la luce cominciava già a scarseggiare, così come le forze, che parevano doverli abbandonare da un momento all’altro.

Swehn, come sempre, marciava nella zona centrale della processione: aveva imparato, già dal secondo giorno, che quella piccola accortezza gli poteva risparmiare molte forze. Sospinto da chi era più robusto ed in forze di lui, riusciva a mantenere un ritmo di poco inferiore a quello di chi lo precedeva.

Tutto sembrava procedere tranquillamente: non si ha forse questa stessa sensazione ogni volta che si avvicina una tragedia?

 

Non fu esattamente una tragedia quella che consentì la fuga di Swehn, ma un evento certamente inaspettato: un’eclissi solare! In quei tempi di diffidenza e superstizione, un evento naturale come quello poteva essere visto alla stregua di un cattivo auspicio.

Il comandante ordinò a tutti i soldati, visibilmente scossi, di proseguire con lo stesso passo. Nonostante l’incertezza che riempiva in quel momento il cuore di quasi tutti i legionari, la Truppa non rallentò il passo, e continuò per la stessa strada al semibuio causato dall’eclisse.

Ma, improvvisamente, qualcosa attraversò il cielo sopra le loro teste: quasi certamente si trattava di un corvo, o comunque di un innocuo volatile, ma nessuno si chiese cosa fosse.

«Lassù, guardate! Vola verso di noi!» Il grido arrivò da un soldato, probabilmente il più impressionabile fra tutti. Fu sufficiente.

I soldati furono presi dal panico, e cominciarono a correre ovunque: mentre il comandante cercava invano di riportare l’ordine tra le file, chi era in grado di fuggire non esitava un solo istante. La maggior parte di loro, tuttavia, si rese presto conto che il pericolo era inesistente e che non si correva alcun rischio, tornando subito a radunarsi intorno al comandante e porgendo le proprie scuse.

 

Mentre molti di quei combattenti, che avevano visto la lama del nemico a pochi centimetri dagli occhi, fuggivano senza motivo, Swehn ebbe la necessaria prontezza di spirito di uscire dalla mischia.

Non che gli fosse ben chiara, almeno non all’inizio, la possibilità di fuga che aveva davanti: semplicemente cercò di togliersi da dove rischiava di essere travolto dai suoi compagni. Si rifugiò sotto un carro abbandonato e cercò di non sentire il rumore. Sarebbe uscito non appena avesse sentito silenzio, o almeno così pensava.

Poi un’idea gli balenò per la mente: era un’occasione unica! Nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, nemmeno i suoi compaesani: avrebbero pensato che fosse finito in un’altra fila dopo il trambusto, e non avrebbero segnalato la sua assenza. E se l’avessero visto mentre si nascondeva? Impossibile, non c’era abbastanza luce per distinguere un uomo che cammina carponi da un cane.

Bisognava solo aspettare, e sperare che la Truppa si riavviasse presto: finché restavano nelle vicinanze non poteva stare tranquillo. Se poi, casualmente, l’avessero trovato sotto il carro, avrebbe fatto finta di essersi addormentato.

Sì, era un piano perfetto, non poteva in alcun modo fallire.

 

Quando Swehn si svegliò, il sole era già alto. Era indolenzito per via della posizione decisamente scomoda in cui era stato costretto a dormire: in particolare, una pietra gli aveva premuto conto il collo per l’intera durata della notte, e nonostante si fosse alzato la sentiva ancora a contatto.

Dopo qualche minuto, diminuito il dolore, Swehn realizzò che il resto della Truppa era sparito: era libero! Non avrebbe più dovuto marciare sotto il sole, né strigliare i cavalli, né piantare i paletti delle tende!

Poteva tornare a casa, e ricominciare a vivere come aveva sempre fatto fino a pochi giorni prima, senza doversi nemmeno preoccupare dell’invidia dei vicini: erano tutti in guerra, loro!

Ma la prima cosa da fare era andare a mangiare qualcosa: per troppi giorni era rimasto sull’orlo del digiuno – o almeno così gli pareva, abituato com’era a divorare da solo pasti che sarebbero bastati per almeno tre persone – per poter resistere oltre.

D’istinto si avviò verso la locanda più vicina, un accogliente edificio di mattoni seccati al sole, pronto a consumare un lauto pasto. Peccato che si fosse dimenticato di un particolare molto importante, che avrebbe fatto meglio a tenere ben presente: non aveva soldi con sé!

Solo al momento di pagare il conto si accorse che il suo borsellino non era al suo posto, e subito cominciò a sudare freddo: l’oste era alto e robusto, avrebbe impiegato meno di trenta secondi a farlo pentire di essere entrato lì.

Pensò di fuggire dalla porta, ma il locale era troppo vuoto perché potesse sperare di passare inosservato nella calca. Allora pensò che poteva solo cercare di prendere tempo mentre trovava a un’idea migliore, e si avviò verso il bagno, cercando di mostrare la faccia più serena che gli riusciva.

Una volta entrato nel bagno, dopo essersi chiuso la porta alle spalle ed aver respirato profondamente, cominciò ad analizzare la piccola stanza alla ricerca di una via di fuga. Battè con le nocche contro ogni centimetro di parete, e allo stesso modo con il piede contro il pavimento: per sua sfortuna non trovò nessun passaggio segreto.

Sconsolato, alzò gli occhi al cielo, e vide una finestrella che dava sul cortile. Non era molto in alto, forse con un salto sarebbe riuscito a toccarla. Con un balzo arrivò fino a quell’altezza, e constatò con immenso piacere che non c’erano vetri o sbarre. Con un altro salto riuscì ad aggrapparsi al bordo, e si tirò su a fatica.

Il piazzale non era molto più sotto, e non si sarebbe fatto male nell’atterraggio. Infilatosi nella finestrella, non senza sforzo, si preparò a saltare. Il dislivello era poco, e non avrebbe fatto nemmeno in tempo a prepararsi prima di toccare terra. Infatti non lo fece: atterrò di schiena sul mucchio di paglia che si trovava sotto la finestrella.

Esultando per la facilità della fuga, si alzò e cominciò a scrollarsi la paglia di dosso. Poi alzò lo sguardo, e smise di esultare.

 

Il grosso cane lo fissava con uno sguardo che non lasciava molto spazio all’immaginazione: più che un cane, in realtà, sembrava essere una mucca, viste le dimensioni. Il pelo arruffato era di colore grigio chiaro, anche se in molti punti era sporco di un nero opaco; i denti, lucidi e affilati come lame di pugnali, erano totalmente coperti dalla bava che scendeva copiosa anche ai bordi della bocca.

Il primo impulso di Swehn fu, ovviamente, quello di darsela a gambe: ma sentiva che le energie non gli sarebbero bastate per attraversare di corsa il cortile, scavalcare la recinzione e fuggire dall’oste, il quale nel frattempo sarebbe uscito dalla locanda per via dell’abbaiare.

Non poteva nemmeno sperare di risalire il muro fino alla finestrella, fuori dalla sua portata, ed in ogni caso avrebbe dovuto vedersela con l’oste. Preso dal panico, con davanti il cane che si preparava ad attacare, fece l’unica cosa che gli venne in mente.

«Guarda, laggiù, un gatto!», gridò rivolto al cane che lo fissava. Subito si sentì uno stupido: come poteva sperare che il cane cadesse in un tranello così banale?

«Idiota, idiota!», disse ad alta voce, insultandosi. E fu proprio quello che lo salvò. Il cane, abituato a sentire quelle parole dal suo padrone – che lo chiamava sempre così quando era in collera, il he non accadeva spesso ma lasciava il segno –, si scostò.

Due istinti opposti si combattevano in lui: da una parte la volontà di cacciare l’intruso, dall’altra la paura del padrone. Vinse il secondo, e Swehn potè passargli accanto ed uscire dal cortile senza essere disturbato.

 

Fuori dal cortile tirò un sospiro di sollievo, ma subito si scosse: non poteva fermarsi, anche perché l’oste si sarebbe presto insospettito per via della lunga permanenza in bagno, e quando avrebbe trovato il bagno vuoto sarebbe subito uscito a cercarlo.

Quindi avrebbe dovuto cercare di uscire dal paese prima che facesse giorno, sperando che l’oste non si sarebbe spinto troppo lontano dalla locanda nelle sue ricerche.

Fermò un passante, dal quale apprese che la città più vicina distava circa diecimila piedi, decisamente troppi da percorrere di notte, specie se con molte ore di sonno arretrate che pesano sulle palpebre.

Ma doveva allontanarsi da lì, quindi si avviò con passo poco convinto per la strada che portava al bosco e, più avanti, al paese.

 

Se dormire nel bosco con il resto della Truppa gli era sembrata un’esperienza poco piacevole, doverlo fare da solo si rivelò ancora peggio.

Non riuscì a chiudere occhio per un solo istante: non appena sentiva un fruscio si voltava da quella parte, brandendo la spada con mano tremante. Molte volte si trattava solo di foglie mosse dal vento, altre di piccoli animaletti che si muovevano sul prato, ma in ogni caso Swehn era troppo terrorizzato per notare la differenza, e si difendeva come se si trattasse di un’intera famiglia di draghi pronti a divorarlo. Così le ore di sonno perse, invece che diminuire, aumentarono.

Anche il giorno successivo, quando ormai il lauto pasto non pagato era solo un bel ricordo e la fame cominciava a farsi sentire, Swehn continuò a marciare nella foresta, inciampando nelle radici sporgenti degli alberi secolari e imprecando ad alta voce ogni volta che una pigna gli cadeva in testa.

«Se questa è la vita per chi diserta», pensava, «avrei fatto meglio a rimanere con la Truppa!» Non aveva la forza di correre, e quando finalmente arrivò in vista del paese il sole era ormai quasi tramontato.

Si trascinò a fatica fino a una delle prime case, e bussò.

 

Gli aprì la porta una ragazzina vestita di bianco. Sorrideva. Aveva i capelli color delle rose, che quasi si confondevano nel bagliore rosso del camino acceso. Lo fissò per qualche secondo, poi dischiuse del tutto la porta, invitandolo ad entrare con un lieve cenno del capo.

All’interno della casa il calore accogliente ed il profumo di carne alla brace lo fecero sentire subito meglio. Presto cominciò a vergognarsi di essere vestito poco più che di stracci, e di essere costretto a chiedere un’ospitalità che non avrebbe potuto in alcun modo ricambiare.

Era immerso in quei pensieri quando entrò la padrona di casa: era vestita di bianco, con un abito molto simile a quello della figlia, e portava un piatto con dentro una bistecca e un pezzo di pane. La ragazzina, dietro di lei, teneva in mano un boccale di birra.

«Prego, siediti, sei nostro ospite per questa sera», disse la madre, e subito Swehn fu invaso da una sensazione piacevolissima.

Durante il pasto, che le sue ospiti consumarono con lui sedute al lungo tavolo di legno, ebbe modo di conversare e venne a sapere alcune cose molto importanti riguardo al luogo nel quale si trovava. Innanzitutto, scoprì – nonostante l’avesse già intuito dal comportamento della donna e, soprattutto, della figlia – di non essere il primo disertore che raggiungeva quel paese.

A sentire la madre, almeno tre persone avevano chiesto ospitalità negli ultimi giorni, e tutti erano vestiti come Swehn. Poi riuscì a capire la situazione politica del luogo: scoprì che, proprio a causa dei disertori passati prima di lui, la sorveglianza era stata aumentata sia all’ingresso che all’uscita della città: il governante non voleva rischiare di avere guai con il Potere Centrale, e così cercava di aiutare la Truppa a catturare chi disertava.

Swehn era stato fortunato, perché l’aumento della sorveglianza era stato previsto per la mattina seguente, e lui era potuto passare inosservato. Tuttavia avrebbe dovuto stare molto attento, dato che non sarebbe uscito dal paese con altrettanta facilità, non vestito in quella maniera.

La madre gli parlò di una sua compaesana, ottima sarta, che forse sarebbe riuscita a trasformare la sua corazza di cuoio in qualcosa che attirasse meno l’attenzione. Il resto della serata passò piacevolmente, e quando la padrona di casa mandò la figlia a dormire per poi mostrare a Swehn la sua camera, lui pensò che sarebbe rimasto volentieri un altro po’ in salotto a conversare.

Ma il sole era già calato da tempo, e sapeva che la giornata seguente avrebbe dovuto darsi da fare.

 

Come sempre quando si dorme piacevolmente, e come capitava troppo spesso in quel periodo, il risveglio si dimostrò la parte peggiore della giornata.

Nonostante avesse dormito molto meglio di quanto non avesse fatto la notte precedente, non era riuscito a recuperare tutto il sonno arretrato dei giorni passati, e quando si guardò allo specchio – non lo faceva da molto tempo, e quasi non si riconobbe: quanto era dimagrito! – si rese conto delle vistose occhiaie che gli segnavano il volto.

Si sciacquò il viso con acqua calda, e dopo essersi lavato scese al piano inferiore. Stava per arrivare in fondo alle scale quando sentì una voce maschile. Stava urlando qualcosa alla donna che l’aveva ospitato, e dal tono capì che non era molto contento di avere un disertore in casa. Poi sentì il suono di uno schiaffo, e subito dopo la donna che piangeva.

La cosa fece infuriare Swehn: chi era quell’uomo, con quale diritto si permetteva di prendere a schiaffi quella donna? Tastò con la mano intorno alla cintura, finché non ebbe in mano l’elsa della spada. Poi scese lentamente le scale rimanenti, sempre tenendo saldamente la destra alla spada.

Quando la donna, raggomitolata in un angolo, lo vide arrivare alle spalle dell’uomo, emise un gridolino sorpreso: ma quando l’uomo si fu girato, si trovò con la lama puntata alla gola.

«Ti consiglio di lasciarla in pace», sibilò rivolto all’uomo. «Ora io me ne andrò, e tu non rischierai più nulla. Ma non azzardarti a toccarla un’altra volta, o ti pianterò questa lama in gola.»

Poi sorrise alla donna e si avviò verso l’uscita, lasciandosi alle spalle l’uomo ancora pietrificato.

 

Ricordava, a grandi linee, dove fosse la casa della sarta: sperava che i suoi ricordi non fossero stati alterati dal sonno e dagli effetti dell’alcool, anche perché non avrebbe potuto chiedere informazioni. Per fortuna le indicazioni della donna erano state precise, e non ebbe bisogno di girare tutto il paese per raggiungere la bottega.

Una volta entrato, la sarta gli venne incontro: era una donna bassa e robusta, che vestiva una tunica rossa piena di toppe. Lo squadrò con aria sospettosa.

«Mi manda la donna della casa accanto», le disse Swehn, rendendosi conto solo in quel momento di non averle chiesto il nome. «È una donna alta, vestita di bianco», continuò, cercando di far capire bene alla sarta di chi stesse parlando.

La donna annuì. «Bene, bene, immagino che tipo di lavoro tu sia venuto a chiedermi. Spogliati, così posso mettermi subito al lavoro.»

La richiesta improvvisa colse Swehn impreparato: arrosì vistosamente, e d’istinto abbassò lo sguardo. Poi lo rialzò, e vide che la sarta gli stava porgendo una tunica da lavoro, rossa e rattoppata come quella che lei stessa indossava.

Mentre Swehn si toglieva di dosso la corazza di cuoio, che aveva lavato la sera precedente, e indossava la tunica, la donna si girò dall’altra parte.

 

Dopo poche ore di lavoro, la sua corazza si era trasformata in un abito da viaggiatore: con l’aggiunta di alcuni pezzi di stoffa leggera, l’abile sarta aveva ottenuto un vestito sobrio e sottile, che si adattava perfettamente alla stagione. La ringraziò più volte, e dopo averle promesso che si sarebbe sdebitato in qualche modo, uscì dalla bottega nella sua nuova veste.

Era più piacevole girare per il paese senza il terrore di essere riconosciuti: cominciò a guardarsi intorno, e si rese conto della bellezza di ciò che lo circondava. Appena fuori dalla città si entrava nuovamente nella foresta, ma alla luce del giorno sembrava così diversa da quella in cui aveva passato una notte di cammino!

Gli veniva voglia di correre subito verso gli alberi e di riprendere subito il cammino: ma verso dove? Si rese conto di essere troppo distante dalla sua città natale per sperare di raggiungerla solo, senza un soldo e con un senso di orientamento che lo faceva smarrire non appena usciva di casa.

D’altra parte non poteva certo chiedere a qualcuno di accompagnarlo: se avesse rivelato di provenire da quella città sarebbe subito stato individuato come disertore, e avrebbe rischiato guai seri.

Si stava lambiccando il cervello alla ricerca di una buona idea, quando a pochi centimetri da lui passò un carro: in effetti la sua corsa in direzione del bosco si era fermata proprio al centro della strada.

Allora gli venne in mente che avrebbe potuto unirsi ad una carovana diretta al Sud: se fosse stato insieme ad un altro gruppo di persone avrebbe dato molto meno nell’occhio, e inoltre si sarebbe sentito più protetto da tutti i pericoli che minacciavano un viaggiatore solitario.

Dopo essersi informato, scoprì con enorme dispiacere che la prima carovana sarebbe partita solo dopo tre giorni, e avrebbe fatto un lungo giro verso il Nord prima di andare in direzione della sua casa.

Dato che non poteva fermarsi in quel paese – un viaggiatore che rimanga per più di una giornata in uno stesso luogo è molto sospetto, e abbiamo già avuto modo di vedere quanto poco convenisse essere guardati storti dalla gente in quel periodo – decise di proseguire il suo cammino verso Nord, in modo da anticipare la carovana, e viaggiando attraverso i boschi per farsi notare il meno possibile.

 

Dimenticata l’ebrezza del contatto con la natura, Swehn si rese rapidamente conto del fatto che non sarebbe stato un viaggio breve, né facile: i boschi erano piuttosto radi in quella zona, ma tendevano decisamente alla salita; inoltre, non vi crescevano che poche piante commestibili, e molte di queste andavano stanate a forza di strappare erbacce.

Tuttavia i ruscelli scorrevano abbondanti, e almeno il bere non rappresentava un problema. Si fece coraggio: il ritorno a casa valeva ben più di qualche giorno di cammino in mezzo ai boschi.

Ma più proseguiva nel suo viaggio, più sentiva che avrebbe fatto meglio ad aspettare la carovana nel paese, a costo di risultare sospetto.

Si sentiva continuamente osservato, come se qualcuno lo avesse seguito dal momento della sua partenza, e non smettesse di tenergli gli occhi addosso. Si girava di scatto e non vedeva nulla.

Continuò così per mezza giornata, e quando vide che il sole non era più tanto alto nel cielo, iniziò a sentire paura. Paura di essere sgozzato nel sonno da un assassino, o di essere attaccato da chissà quale creatura.

I suoi presentimenti si fecero sempre più forti man mano che si addentrava nella foresta, e di pari passo con l’aumentare delle tenebre. E ben presto scoprì che non erano infondati: ma se ne accorse troppo tardi, quando ormai due mani viscide lo avevano già afferrato per le caviglie, facendolo cadere a terra.

Fece in tempo solo a sentire altre due mani che gli stavano bloccando i polsi, e a percepire il terreno che scorreva sotto la sua schiena, prima di perdere i sensi.