Capitolo Secondo

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La casa lo accolse amorevole fra le sue fronde. Nell’ambiente si poteva sentire distintamente il dolce profumo della resina fresca, che saliva nelle narici di Kinrul inebriandolo. Per qualche istante, il ragazzo dimenticò tutto il resto e si lasciò guidare dall’essenza di albero in un sogno ad occhi aperti. Nelle Terre Felici bastava scostare qualche fronda e guardare fuori per sognare.

Il profumo, una volta messa la testa fuori di casa, si fece meno intenso, di pari passo con l’intensificarsi del dolore al braccio. L’ennesima fitta lo costrinse a considerare seriamente l’ipotesi di una medicazione, soprattutto per paura che la ferita potesse causare infezione.

«Mamma, io esco un attimo!», gridò dalla soglia, e un istante dopo era già in strada, mentre le fronde si stavano riavvicinando per chiudere la casa. La bottega dello speziale era dall’altra parte del paese, e ci sarebbe voluta una mezz’oretta buona per raggiungerla.

Mentre camminava per il sentiero di ciottoli, Kinrul si guardava intorno, cercando di cogliere i visi delle persone conosciute per poterle salutare. Lo stupendo paesaggio delle Terre Felici poteva certo stupirti, se non eri nato lì.

Appena passò davanti alla Locanda dei Tre Faggi si bloccò per lo stupore. A colpirlo non era stata certo la locanda, una normale casa formata da tre enormi faggi fusi insieme in una sorta di palazzina piramidale, ma piuttosto il carro che aveva visto fermo nel parcheggio. Lo stesso che era passato davanti a casa sua poco prima.

D’improvviso si scordò sia del dolore al braccio che del pericolo di infezione, e il solo sentimento che lo guidava era il desiderio morboso di rivedere quel ciondolo a forma di mano. Pensò che, se il carro si trovava nel posteggio della locanda, il conducente non poteva essere molto lontano. «Un’occhiata e basta, ci metterò meno di cinque minuti», mentì a se stesso.

Si diresse istintivamente verso il carro, e quando fu abbastanza vicino notò un particolare che prima gli era sfuggito, concentrato com’era sul ciondolo. Il telo nero pece che copriva la mercanzia non era, come sarebbe stato ovvio aspettarsi, fatto di un tessuto povero come la lana o la juta, ma anzi era intessuto nella più fine seta. Non era certo normale, non se si pensava che quello era un carro di mercanti. Ma lo era veramente?

Cercò di pensare, di cercare un collegamento tra i fatti, ma era come se tutta la sua mente fosse concentrata su quel ciondolo, e non gli fosse possibile ragionare se non di quello. Il ciondolo! Doveva assolutamente rivederlo. Senza pensare, si diresse verso la locanda.

 

All’interno del locale l’aria era pressoché irrespirabile: enormi nuvole di fumo uscivano dalla bocca di nerboruti uomini, probabilmente mercanti ormai abituati alle imboscate dei predoni e quindi allenati alla lotta impari, per poi alzarsi sempre più e raggiungere il soffitto, spandendosi. Molte generazioni di fumatori erano già passate in quel luogo, e le foglie più vicine al tronco erano in parte marcite o ingrigite.

L’orario pomeridiano non era quello di punta, e il numero di avventori era minimo: tuttavia a Kinrul sembrò che il rumore fosse già troppo, e che la confusione fosse eccessiva per trovare l’uomo del medaglione. Stava per tornare sui suoi passi, anche per via del dolore al braccio, quando, per l’ennesima volta, sentì che doveva trovare quell’uomo. Si girò e cercò con lo sguardo l’oste.

Solo allora si rese conto del fatto che da qualche istante tutte le voci si erano placate, e che lo sguardo di ogni persona puntava verso l’ingresso del locale. Quando si girò, capì il motivo di tanta attenzione: il conducente del carro era appena entrato, e si stava guardando intorno. Pareva che nessuno riuscisse a staccare gli occhi dal suo medaglione, e nemmeno lui se ne sentiva capace. Poi l’uomo smise di guardarsi intorno, e chiese chi fosse l’oste.

Tutti conoscevano l’oste dei Tre Faggi, e non per la sua gentilezza. Ogni volta che un cliente gli sembrava fuori luogo, lo cacciava dalla locanda a male parole: nessuno, dopo essere stato cacciato dalla Locanda dei Tre Faggi, osava più rimettervi piede, per paura di subire nuovamente lo stesso trattamento.

Kinrul sapeva che l’oste, in particolare, odiava gli arroganti, e quell’uomo aveva parlato con un tono che sprizzava astio da ogni poro: senza dubbio sarebbe stato allontanato immediatamente.

Ma ciò che sembrava ovvio non accadde, anzi: il proprietario fece un passo avanti rispetto al cerchio che si era formato intorno all’uomo, accennò un inchino e disse «L’oste dei Tre Faggi sono io, signore, per servirla.» Lo stupore crebbe in Kinrul quando vide che nessuno si era mosso, nonostante la reazione anormale dell’oste. Erano ancora tutti lì, in cerchio, a fissare con sguardo assente il medaglione a forma di mano.

Anche Kinrul lo stava osservando attentamente: aveva assistito al resto della scena solo con la coda dell’occhio. Poi l’uomo con il medaglione guardò verso l’oste e gli ordinò: «Preparami la camera migliore che avete in questa bettola, e vedi di sbrigarti.» L’oste non rispose, e subito si avviò verso le scale che conducevano al piano superiore, con una coperta ed un cuscino in mano.

L’uomo chiese un boccale di birra, e la moglie dell’oste gliela servì senza fiatare. Non tirò fuori nemmeno una monetina di rame consumata.

Tutti gli occhi della locanda erano fissi su di lui, eppure non mostrava il minimo turbamento: si muoveva con gesti fluidi, naturali, come se fosse nel salotto di casa sua. Poco dopo l’oste tornò e disse all’uomo che la sua camera era pronta. Con un gesto secco della mano, l’uomo lo allontanò. Finì di bere la sua birra in tutta calma, poi si avviò verso le scale, mentre tutti gli sguardi lo seguivano.

 

Quando fu sparito dalla sua vista, Kinrul sentì nuovamente il desiderio di seguirlo, e si trattenne solo al pensiero della ferita. Uscito camminando a scatti, come se ogni istante fosse deciso a tornare indietro, guardò il cielo: si stava facendo buio, e lo speziale del paese non avrebbe ricevuto clienti ancora per molto. «Devo sbrigarmi», pensò, e cominciò a correre.

Non raggiunse in tempo il laboratorio, e nel profondo si insultò per via del tempo che aveva perso nella locanda. Tornato a casa, sua madre lo accolse con le solite, amorevoli cure, e insistette affinché lasciasse a lei i lavori di casa e non si svegliasse all’alba la mattina successiva.

Lavò la ferita nell’acqua gelida, godendosi la sottile sofferenza che fare ciò gli dava. Asciugatosi, si spogliò e andò a letto.

 

Non fu un sonno tranquillo. Per tutta la notte, l’immagine del medaglione a forma di mano lo perseguitò, impedendogli di sognare altro. In alcuni momenti, sospeso tra il sonno e la veglia, gli sembrava di poter vedere una mano identica a quella del ciondolo che pendeva sulla sua testa, pronta ad afferrarlo nella sua morsa di pece. Altre volte era certo che la mano gli parlasse, ma non riusciva a comprenderne le parole, come se quel linguaggio gli fosse sconosciuto.

Per tutta la durata del sogno, però, non smise mai di sentire il fascino che quell’oggetto emanava. Non era un fascino consueto, basato sulla bellezza esteriore. La mano era stata intagliata in quello strano materiale in maniera molto grezza, e Kinrul era certo del fatto che persino lui sarebbe riuscito a fare di meglio: ma il punto non era quello. L’oggetto era avvolto da un alone di mistero, che pareva dargli un aspetto ancora più allettante.

La testa gli si riempiva di domande ogni volta che ci pensava. Innanzitutto, perché quell’oggetto attirava in quella maniera l’attenzione morbosa di tutti? Non era stato l’unico a vederla, e anche gli altri erano stati rapiti da quel ciondolo.

Poi: come mai sentiva quell’intenso desiderio di possesso? Non gli era mai capitato, prima di quel giorno, di volere così intensamente qualcosa che non gli apparteneva, mentre il giorno prima avrebbe ucciso per il medaglione. Sapeva che ne sarebbe stato capace, e si disprezzava per ciò.

L’altro interrogativo che gli turbinava per la testa riguardava l’aspetto meramente tecnico della faccenda: di cosa era fatta quella mano? Certo di un materiale che Kinrul non aveva mai visto, e di cui non aveva nemmeno sentito parlare. Ruvido come una scheggia di roccia, ma capace di risplendere al sole come la più lucida e levigata pepita d’oro. Sembravano caratteristiche incompatibili, impossibili da trovare insieme in uno stesso materiale.

Era totalmente immerso in questi pensieri, ma nel sonno non riusciva a portarli verso nessuna conclusione. Quando si svegliò aveva mal di testa, e sentiva il peso della notte quasi insonne.

 

Sentiva che sarebbe dovuto andare a controllare quel medaglione, e cercare di scoprire qualcosa di più riguardo quell’uomo. Per prima cosa, le motivazioni che lo avevano spinto fino a lì erano sconosciute: anche se si comportava come un mercante, non poteva essere tale, soprattutto visto il telo di seta che ricopriva il suo carro.

E poi nella sua voce c’era la venatura particolare, difficile da riscontrare in un mercante, del tono di chi è abituato ad imporre con la forza il proprio volere. Ma allora, chi poteva essere? Per quanto si scervellasse, Kinrul non riuscì a trovare una risposta. Alla fine decise che, in fondo, la cosa non lo riguardava: uscì di casa e si diresse verso il laboratorio dello speziale.

Passando davanti alla locanda, sentì nuovamente il desiderio di entrare, ma riuscì a trattenersi e proseguì con passo deciso verso lo studio. Scostò le foglie più basse, in modo da ricavare un’apertura abbastanza grande per passare, ed entrò.

 

Il laboratorio era ricavato sotto le fronde di una grossa quercia, che offriva allo speziale tutto il posto necessario allo svolgimento della sua attività. Addossati alle pareti vegetali si trovavano accatastati un numero enorme di contenitori, ognuno marchiato dalla sua etichetta. Le scatole si differenziavano fra loro, oltre che per il contenuto, per via della forma: alcuni contenitori erano addirittura incisi nel legno, a foggia di leone o altri animali.

Un odore saturo di piante secche aleggiava ovunque, e sembrava quasi che il naso dovesse impazzire nel tentativo di distinguere tra tutti quei profumi. Le erbe di uso più frequente, come le spezie o la camomilla, erano ovviamente presenti in quantità maggiore, e alla lunga si riuscivano a discernere con precisione le loro fragranze. Seguendo ad occhi chiusi la scia di profumo del limone essiccato, Kinrul si spostò per qualche passo all’interno della bottega. Poi andò a sbattere contro lo speziale.

Gli scappò un sorriso, mentre osservava il vecchietto che si rassettava il vestito. Quest’ultimo, quando si ritenne nuovamente presentabile, alzò gli occhi verso il ragazzo e, con aria mesta, gli domandò: «Dimmi ragazzo, cosa posso fare per te?» Il ragazzo mostrò la ferita, che nel frattempo aveva fasciato con un panno bianco, e lo speziale la osservò con cura. Pensoso, rimase per qualche istante a guardare nel vuoto.

Improvvisamente si girò di scatto alla sua sinistra, il naso teso ad annusare l’aria: con un paio di balzi si portò davanti ad una pila di scatole, quindi cominciò a scorrere rapidamente le scritte sulle etichette. Dopo qualche istante chiamò Kinrul con un cenno della mano, e appena il ragazzo si fu avvicinato gli chiese di togliere dalla pila una delle scatole. Appena la ebbe in mano, il vecchietto tolse il coperchio, e un dolce aroma di erba fresca inebriò Kinrul. Inspirò a pieni polmoni, poi tornò ad osservare lo speziale.

Non era più davanti a lui: aveva preso un piccolo pugno di erba, con qualche rapido saltello si era già portato verso il bancone, e adesso stava schiacciando le foglie secche della pianta in un piccolo pestello di rame. Dopo aver aggiunto dell’acqua, aveva ottenuto una specie di crema verdognola, decisamente poco bella d’aspetto ma che emanava un profumo intensissimo.

«Brucerà un poco», gli disse lo speziale dopo avergliene sbattuto un cucchiaio pieno fino all’orlo sulla ferita.

Un’inaspettata sensazione di calore piombò su Kinrul, e rapidamente passò dal braccio al resto del corpo, per poi arrivare alla mente ed annebbiargliela. Non riusciva più a distinguere nitidamente la sagoma dello speziale: un gridolino di terrore gli si strozzò in gola, mentre sentiva le gambe cedergli.

Poi sentì una mano che afferrava il suo braccio, sostenendolo, e la rassicurante voce dello speziale che lo confortava, dicendogli che sarebbe durato poco. Ad un tratto sentì una sedia sotto di sé, poi nient’altro.

 

La prima cosa che vide quando si svegliò fu il viso dello speziale, chino su di lui. Poi girò la testa di lato, e trasalì: accanto a lui, seduto su di un’altra sedia, c’era l’uomo del medaglione.

Il suoi lineamenti erano rilassati, come se fossero le minuscole increspature di un lago in quiete: aveva gli occhi socchiusi, come per godersi una musica che solo lui sentiva, e fischiettava impercettibilmente.

Kinrul osservò a lungo il suo volto, nell’insieme, e quasi dimenticò del ciondolo. Fino a poco prima aveva sospettato ci fosse qualcosa di losco che quell’uomo nascondeva, ma ora, senza l’influsso dell’oggetto, riuscì a percepire un certo fascino nell’uomo. D’un tratto lo speziale parlò.

«Ah, ti sei svegliato! Finalmente: stavo cominciando a preoccuparmi. L’impacco ha avuto un effetto particolarmente intenso su di te: hai dormito per quasi cinque ore!»

Cinque ore. «Cinque ore? Ma sono in ritardo! Non ho nemmeno avvisato mia madre che sarei uscito!», pensò Kinrul. «Devo scappare! Quanto le devo?», chiese poi, rivolto allo speziale. «Nulla, ragazzo. Non ti preoccupare: mi hai già pagato», fu la risposta che ottenne.

Era troppo in ritardo per badare alle affermazioni assurde dell’uomo, quindi infilò la porta senza esitazioni. Solo quando fu uscito ricordò del ciondolo. Si rese conto che non l’aveva osservato nemmeno per un istante, quella volta. E non aveva nemmeno sentito il solito desiderio di possesso.

Sentiva che tutto quello aveva un significato, ma era troppo in ritardo per fermarsi a cercarlo. Si voltò e, correndo, si diresse verso casa.

 

Quando arrivò, sua madre lo accolse sollevata. Lo abbracciò, e gli spiegò che mentre lui si trovava fuori era venuto a cercarlo il capitano della Truppa.

Il suo viso era teso, e le aveva chiesto di riferire al figlio che c’erano problemi a Nord di Ethundel, e che ogni uomo in salute era chiamato alle armi, Kinrul compreso. Pena per i disertori: la morte.

Kinrul si sentì mancare, e crollò su di una sedia. La Truppa era una legione che, nell’Era delle Guerre, aveva combattuto agli ordini di tutti i più grandi re, per sconfiggere i nemici dell’Impero. Da quando si era entrati nell’Era Pacifica, tuttavia, l’arruolamento aveva assunto un carattere volontario, e il convocamento di tutti i maschi in forze poteva voler dire una sola cosa: i guai erano seri.

Kinrul non aveva assolutamente intenzione di partire per il Nord: non aveva lasciato il proprio villaggio con gli altri uomini appunto per rimanere accanto a sua madre, e non voleva farlo questa volta.

Del resto, riguardo alle sorti dei vari gruppi che avevano tentato di attraversare il Galadrun non vi erano più notizie, il che poteva anche far sperare in bene; sulle varie legioni della Truppa le notizie abbondavano, e venivano direttamente dai pochi superstiti.

Aveva solo un giorno per decidere, e le alternative erano rischiare di morire in battaglia o rischiare di morire per aver disertato.

 

Ancora scosso per via della notizia, Kinrul decise di fare una passeggiata notturna per schiarirsi le idee. Uscì in strada, e subito il frastuono della festa lo assordò.

Era tradizione che, ad ogni convocazione generale della Truppa, si tenesse una grandiosa festa per salutare coloro che dovevano partire, ed augurare loro buona fortuna. Perciò le strade del paese erano piene di gente intenta a festeggiare, di commercianti che vendevano le più disparate merci, musicisti che si esibivano sperando in qualche monetina di rame, giocolieri che intrattenevano la folla e cantastorie che catturavano i più piccoli recitando le antiche epopee.

Nella calca era difficile muoversi, e Kinrul avanzò a stento per la via principale. Giunto davanti alla Locanda dei Tre Faggi notò un capannello di gente riunita intorno ad una persona: pensò si trattasse di un cantastorie, e si avvicinò per sentire quale leggenda stesse narrando. Arrivato abbastanza vicino, però, si rese conto che la situazione non era quella che si aspettava.

 

Al centro del gruppetto non vi era infatti, come pensava, un cantastorie, bensì l’uomo del medaglione. Stava lottando contro un altro uomo, bendato, che a sua volta si dava da fare per strappargli di mano un piccolo involucro di seta nera.

L’uomo del ciondolo continuava ad urlare «Aiuto, al ladro! Aiuto, guardie! Al ladro, al ladro!», ma nessuno pareva ascoltarlo: tutti osservavano l’involucro con sguardo spento.

Kinrul capì qual’era il contenuto del panno di seta senza aver bisogno di guardarlo, e chiuse gli occhi. Sentiva il magnetismo del medaglione che, anche se meno intensamente attraverso la seta, cercava di far volgere il suo sguardo in quella direzione.

Si oppose con tutte le sue forze, perché percepiva le sue palpebre che si alzavano lentamente. Riusciva a precepire la posizione del medaglione anche ad occhi chiusi, e decise di reagire: spiccò un rapido balzo verso il medaglione, e sentì la sua gamba che sbatteva contro lo stomaco di una persona.

Poi l’attrazione del ciondolo calò gradualmente, finché non riuscì più a percepirne la posizione. Allora aprì gli occhi.

L’uomo del medaglione era ai suoi piedi, privo di sensi. Si girò e intravide il ladro che si allontanava rapido. Dopo essersi insultato a lungo, si rese conto del fatto che nessuno l’aveva visto: infatti si stavano risvegliando solo allora dalla magia del ciondolo.

Prese rapidamente la decisione di mischiarsi tra la folla, e quando tutti si furono accorti dell’uomo disteso in mezzo alla strada, lui era già lontano.

 

La mattina arrivò troppo in fretta, portando con sé una dolce brezza che non riusciva a spazzare via i dubbi di Kinrul. Aveva passato tutta la notte a sognare cosa sarebbe successo in caso avesse scelto una o l’altra possibilità, e l’unico risultato ottenuto era stato quello di non riuscire a riposare abbastanza. Il sole era appena sorto, e le strade deserte: aveva ancora un paio d’ore buone per prendere una decisione.

Vestitosi, uscì di casa senza fare rumore e si avviò verso il centro: non poteva farsi vedere in periferia, perché la Truppa si sarebbe radunata fuori città, e lui temeva di farsi vedere. Se avesse deciso di disertare, voleva partire senza testimoni.

Poi, senza un motivo preciso, si diresse verso il bosco. Passava molto tempo nel bosco, quando non doveva aiutare sua madre nel campo: gli piaceva sentire il tocco morbido dell’erba sotto i piedi nudi, gli piaceva respirare quell’aria intensa che sapeva di resina e vita millenaria, gli piacevano tutte le creature che abitavano quel luogo.

Spesso si metteva a chiaccherare con uno scoiattolo o con un passerotto, e a Kinrul pareva che riuscissero a comprendere ciò che diceva. Al punto che si sentiva triste quando, invece, a tentare di comunicare erano loro, e lui non poteva fare altro che fingere di capire.

«Forse fingono anche loro», pensava. Poi scuoteva la testa. Sapeva benissimo che non era vero: non nelle Terre Felici. Lì non esisteva un solo animale che potesse rimanere indifferente alle parole di un uomo. Poteva ignorarle, questo sì, ma non poteva in alcun modo non capirle. Era forse quello il motivo del profondo rispetto, quasi venerazione, che gli abitanti di quelle terre mostravano nei confronti di ogni forma di vita animale.

Non tutti: c’erano alcuni uomini, come i mercanti, che non si preoccupavano affatto di quanto carico i loro muli dovessero sopportare, né di quanti giorni di cammino ininterrotto avessero già percorso i loro cavalli. Li sfruttavano finché erano giovani ed in forze, per poi venderli ad un macellaio non appena cominciavano a stancarsi troppo.

Kinrul non li sopportava. Pensava che forse avrebbero avuto più rispetto per gli animali se fossero stati loro a trascinare quei carri.

E se i mercanti avevano un comportamento esattamente opposto a quello che avrebbe dovuto tenere un cittadino rispettabile, negli ultimi secoli anche il resto del popolo aveva iniziato a trascurare la natura: non era più raro vedere un contadino che picchiava una cavalla lenta, né un ragazzo che strappava le radici alle piante per divertimento.

Ogni tanto qualche anziano ammoniva i concittadini del pericolo che poteva derivare da un comportamento simile, ma le sue parole non venivano mai ascoltate. Un tempo le cose andavano diversamente, e Kinrul lo sapeva.

 

C’erano decine di libri, nella biblioteca del paese, che trattavano quell’argomento: libri antichi, accuratamente rilegati, la cui età era tradita solo dallo spesso strato di polvere che li copriva. Nessuno era interessato a leggerli: il passato non ha importanza, per chi lavora la terra, e la sola cosa che conta è come il presente possa influenzare il futuro.

Kinrul, al contrario dei suoi simili, aveva un’innata passione per la lettura, e le cronache erano il suo argomento preferito. Conosceva a menadito ogni evento del passato, dall’Alba di Ethundel almeno fino alla Perdita della Magia.

A quel punto, essendo venute meno anche le abilità che permettevano di scrivere con la sola forza del pensiero, le cronache si erano bruscamente interrotte, senza dare spiegazioni su come ciò fosse stato possibile.

Kinrul passava intere giornate a leggere quei volumi, e molte altre a chiedersi quali fossero state le cause che avevano portato alla Perdita della Magia. Doveva essere successo qualcosa di molto grave, e di improvviso.

 

Kinrul era seduto sopra una roccia liscia, intento ad osservare un piccolo passerotto che svolazzava sui rami di un faggio, quando vide il vecchio.

Era dall’altro lato della radura, e non sembrava camminare: pareva piuttosto che ogni filo d’erba lo sostenesse e si piegasse in avanti per farlo proseguire senza fatica. Indossava un mantello verde scuro, che a tratti si confondeva tra le fronde degli alberi, cosicché sembrava sparire.

Quando Kinrul riusciva nuovamente a vederlo, la sensazione che si muovesse sostenuto dal prato si faceva più intensa. Dopo alcune di queste "sparizioni", Kinrul si abituò a seguire con lo sguardo il cappello dell’uomo, piuttosto che il suo mantello.

Era un copricapo alto, appuntito, che pareva misurare almeno due volte la circonferenza della testa che lo indossava, eppure non accennava a voler scivolare sugli occhi del proprietario, né tantomeno di cadere a terra: così il vecchio proseguiva indisturbato nella foresta, con questo enorme cappello giallo calcato in testa e il mantello che si confondeva nel verde delle foglie.

Ad un tratto il triangolo giallo – così Kinrul vedeva l’enorme cappello perché, nonostante avesse un’ottima vista, la distanza fra lui ed il vecchio era notevole – smise di muoversi alla stessa altezza, e si tuffò verso terra con una rapida parabola.

Sulle prime Kinrul pensò che si trattasse di un trucco, cioè che il vecchio stesse cercando di nascondersi dopo essersi accorto che qualcuno lo stava osservando; dopo pochi secondi, a smentire queste supposizioni, giunsero al suo orecchio delle grida di dolore.

Dimenticando ogni precauzione, scattò verso il luogo nel quale aveva visto il cappello inabissarsi. Non appena ebbe oltrepassato la barriera creata dagli alberi, che in quel punto della foresta crescevano particolarmente fitti, riuscì finalmente a vedere il volto del vecchio.

Il viso era coperto di rughe, e gli occhi si riuscivano a malapena a distinguere. Il colorito della pelle non era quello di tutti gli uomini, ma aveva una decisa tendenza al verde pisello, lo stesso colore dei capelli. Se di capelli si poteva parlare: erano talmente mal tenuti ed ingarbugliati da risultare più simili a liane cresciute sui rami di un alto albero, piuttosto che a capelli cresciuti sulla testa di un basso vecchio.

Gli occhi, marroni come la corteccia, lo stavano fissando intensamente. Non capiva cosa potesse significare quello sguardo: solo, stupidamente, gli veniva in mente l’erba. Il cappello, giallo come una foglia caduta in autunno, non si era staccato dalla testa dell’uomo, e il suo mantello color della siepe lo nascondeva parzialmente alla vista di Kinrul.

Quando l’uomo aprì bocca, tuttavia, Kinrul si stupì come non gli era mai capitato in vita sua.

 

«Beh, non stare lì impalato, aiutami ad alzarmi! Non vedi che non ci riesco da solo? Ah, non sono più agile come un paio di millenni fa… Allora, ti vuoi decidere a darmi una mano? Bah, i giovani d’oggi, non hanno più rispetto per gli anziani! E pensare che una volta eravamo noi a dover aiutare loro…

«Ma erano altri tempi, ormai a noi vecchi non pensa più nessuno, non c’è nemmeno un’anima buona che sia disposta ad ascoltarci. E sì che ne avremmo di cose da dire… Abbiamo visto nascere e morire molte generazioni, avremo pur imparato qualcosa! Ma insomma, vuoi deciderti ad aiutarmi?»

In effetti Kinrul, stordito dalla raffica di parole del vecchio, era rimasto immobile: e anche ora, che l’uomo steso a terra gli stava praticamente urlando nelle orecchie, sembrava non capire, e continuava a fissarlo con aria ebete. Si chiedeva chi fosse quello strano omino che ora, dopo averlo visto da vicino, gli sembrava addirittura comico, e nel frattempo non si muoveva.

Spazientito, dopo qualche secondo il vecchio gli assestò un forte calcio nella caviglia. Scosso dal dolore, Kinrul si ricordò di quello che gli era stato chiesto, e dato che nelle Terre Felici l’ospitalità era considerata sacra, si diede da fare per tirare sù da terra il vecchietto.

Non era un’impresa facile come potrebbe sembrare a prima vista, in quanto il vecchietto, pur non dimostrandolo, era ben in carne e pesava parecchio. Subito dopo essersi messo in piedi, sistematosi gli abiti, si rivolse a Kinrul.

«Delnurag, Signore dei Boschi, al vostro servizio!», disse al giovane, che stava di fronte a lui senza parole.

Aveva avuto l’impressione di conoscere quel buffo vecchietto, mentre lo sollevava, ma solo adesso riusciva a collegare la sua idea ad un’immagine precisa: era veramente Delnurag, il leggendario sovrano che nell’Era delle Guerre aveva tentato in tutti i modi di evitare il conflitto fra gli uomini e gli elfi, perché sapeva che nessuna delle due razze avrebbe smesso di combattere finché non avesse ottenuto la vittoria.

Grazie alle sue leggendarie capacità di diplomatico, era stato proprio Delnurag a convincere entrambe le parti a firmare il trattato, conosciuto come Pace dei Grandi, che aveva poi permesso la fine delle ostilità e segnato l’ingresso nell’Era Pacifica.

In quasi tutti i libri che Kinrul aveva letto si parlava di lui, e non gli sembrò per nulla strano che la sua pelle fosse verde invece che rosa, e che sulla testa gli crescessero liane anziché capelli: era pur sempre il Signore dei Boschi!

E con questo si spiegava anche il fatto che a Kinrul fosse parso levitare: si stava veramente muovendo sostenuto dai fili d’erba, che riconoscevano in lui il loro re!

Nemmeno le affermazioni del vecchietto riguardanti la sua età sembravano poi così incredibili. Non vi erano forse, nelle Terre Felici, alberi che vivevano molto oltre quel tempo?

 

«Kinrul, al vostro e a quello della vostra nobile casata!», si ritrovò a rispondere, dato che pur essendo in parte stordito dalla sorpresa non aveva dimenticato le buone maniere.

«Proprio quello che mi serviva! Un giovane sano ed in forze che mi aiuti a sostenermi durante la mia missione! È il fato che ti ha fatto trovare qui, Kinrul: se non fosse per te, a quest’ora sarei ancora lungo disteso per terra!

«Ma ora basta chiacchere, abbiamo già perso troppo tempo per via di questo inconveniente, siamo anche troppo in ritardo, non possiamo permetterci di ritardare ulteriormente la missione!», disse Delnurag, e mentre finiva di pronunciare queste parole si era già avviato a rapidi balzi, proseguendo nella stessa direzione che aveva prima di cadere.

«Sai, viaggiare sull’erba è molto comodo, ma ci vuole troppo tempo, e noi siamo già abbastanza in ritardo. D’ora in avanti sarà meglio continuare a piedi, non pensi?», proseguì, e detto ciò si voltò a chiedere conferma al suo nuovo compagno di viaggio. Peccato che quest’ultimo fosse circa millecinquecento piedi dietro di lui, cioè nella stessa posizione di prima.

Delnurag lo guardò con sguardo interrogativo, e contemporaneamente si chiedeva se avesse sbagliato qualcosa. No, era sicuro di non aver commesso nessun errore.

Il ragazzo si era messo al suo servizio per volontà propria, e lui aveva tutti i diritti di usarlo come accompagnatore. Inoltre, viste l’importanza e l’urgenza della sua missione, non poteva certo perdere tempo per via dei capricci di un ragazzino!

Con rapidi balzi si portò nuovamente all’altezza del luogo dove era caduto, e a quel punto Kinrul cominciò a parlare.

 

«Cosa?» Non gli riuscì di dire altro. Non riusciva a capire più nulla: cosa voleva Delnurag da lui? L’aveva aiutato ad alzarsi, e ora poteva benissimo proseguire il suo viaggio. Non sapeva nemmeno quale fosse questa missione che sembrava così fondamentale!

E poi lui doveva partire con il resto della Truppa, e anzi avrebbe dovuto sbrigarsi perché era certamente in ritardo. Solo allora alzò lo sguardo, e quello che vide attraverso le fronde degli alberi fu il cielo azzurro di mezzogiorno, con il sole all’apice del suo cammino quotidiano.

Mezzogiorno! Gli altri dovevano essere partiti da almeno quattro ore, e lui era stato certamente già bollato come disertore, anche se in realtà non aveva ancora preso una decisione. Ma c’era di peggio: probabilmente una pattuglia era sulle sue tracce, e se l’avessero trovato non avrebbe avuto scampo!

A quel punto cominciò a prendere la proposta di Delnurag in considerazione: cosa aveva da perdere? In ogni caso non sarebbe mai riuscito a raggiungere la carovana, se fosse stato colto nel tentativo di farlo sarebbe di certo stato individuato e, considerato disertore, ucciso.

L’unica cosa che gli dispiaceva era che sua madre non potesse sapere nulla. D’altra parte, lei era convinta che sarebbe partito la mattina per il Nord, e non poteva sapere che in realtà aveva perso la carovana.

«In che senso "cosa"?», gli stava chiedendo il vecchio Signore dei Boschi. «Cosa aspettiamo?», rispose Kinrul.

Poi prese un ramo da terra, lo spezzò della lunghezza giusta, e cominciò a camminare dietro a Delnurag.