Capitolo Primo

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«Corri, presto! Scappa!», urlava una voce alle sue spalle.

Guardò alla sua sinistra: la parete rocciosa impediva ogni movimento. D’altronde, sulla destra, il burrone non lasciava certo più libertà. Alle sue spalle sentiva distintamente il calore del muro di fuoco; davanti a lui, il suo compagno continuava a gridare di fuggire, mentre brandiva la corta spada davanti agli orchetti sghignazzanti.

Erano più di trenta, e la consapevolezza della netta maggioranza numerica dava loro una sicurezza spavalda, difficile da piegare. Avanzavano con passo deciso, ma non erano sincronizzati: più che una marcia d’attacco, la loro sembrava una fuga da un pericolo troppo vicino.

Si muovevano senza coordinazione, gareggiando fra loro per riuscire a raggiungere per primi le vittime, il pasto fresco della giornata. Ben presto sarebbero stati abbastanza vicini per usare i loro pugnali e, visto il numero, per il suo amico non ci sarebbe stato scampo.

E lui? Come avrebbe fatto a salvarsi? Le pareti rocciose si stagliavano imponenti per oltre centoventi piedi in verticale, lisce e senza appigli. Inoltre erano tutte umide, come se anche loro sudassero per l’enorme calore.

Il muro di fiamme non rassicurava di più, e se anche fosse riuscito a superarlo indenne (già questo era molto improbabile), dall’altra parte ci sarebbe stato il drago nero ad aspettarlo.

Il burrone pareva l’unica via di scampo, anche se la fuga da quella parte appariva, sotto molti aspetti, come un suicidio. Si avvicinò al bordo dell’abisso, e provò ad intuirne, con uno sguardo, il fondo. Niente da fare: non sarebbe riuscito mai a vederlo, non da vivo. La parete rocciosa, da quella parte, era tutt’altro che liscia e regolare, ma al contrario presentava numerosi spuntoni asimmetrici che sporgevano verso il nulla.

Un brivido di paura gli risalì la colonna vertebrale, ma subito si scosse: anche se la morte era certa in ogni caso, avrebbe di gran lunga preferito perire eroicamente durante un combattimento, piuttosto che da codardo sul fondo di un burrone.

L’aria diventava sempre più irrespirabile ogni istante che passava. Si voltò a guardare il compagno, e si stupì del fatto che gli orchetti non l’avessero ancora raggiunto.

Senza pensare veramente, prima che un pensiero coerente potesse formarsi nella sua testa, strinse la mano destra sull’elsa della sua spada e si scagliò verso i nemici urlando a squarciagola.

Il suono della sua stessa voce gli infondeva un’energia nuova: la percepiva distintamente, e la sentiva disciogliersi nel suo sangue, nei suoi pensieri. Con la testa completamente sgombra, caricare un’orda di nemici gli sembrava la cosa più facile di questa terra.

Prima ancora che li avesse raggiunti, gli orchetti l’avevano notato scuotersi come in preda ad un morso di scorpione, per poi scagliarsi contro di loro. La luce della furia splendeva nei suoi occhi, e loro la vedevano. La temevano.

I più vicini a lui furono i primi a fermarsi, come trattenuti da una forza invisibile. Quelli dietro, che nell’assalto sconsiderato avevano la vista coperta dai guerrieri delle prime file, si accorsero di tutto solo quando furono andati a sbattere contro i compagni.

Quando gli orchetti delle ultime file si fermarono, i primi erano già stati sgozzati dalla corta lama affilata della spada. Con quel primo attacco a semicerchio, aveva ucciso sette orchetti: ne restavano più di una ventina.

Tra il primo colpo ed il secondo, riuscì a lanciare un’occhiata verso il compagno, che giaceva steso a terra, probabilmente colpito di striscio dal pugnale di un orchetto. Aveva perso i sensi, e non rispondeva ai suoi richiami. Proprio ora che aveva bisogno del suo aiuto.

Il secondo colpo non mietè tante vittime quante il primo: subito dopo aver assistito allibiti alla morte dei compagni, gli orchetti avevano cominciato a ritrarsi verso l’uscita della caverna, nel tentativo di allontanarsi da lui.

Ma non tutti avevano avuto la necessaria prontezza di riflessi: ora altri tre cadaveri neri giacevano al suolo, ancora nell’atto di difendersi. Quando prese ad inseguire gli altri orchetti, quelli erano già distanti, e le sagome dei più veloci si stagliavano già contro la luce che filtrava dall’apertura.

Non avevano ancora fatto tutti in tempo a raggiungere il pertugio, che già la lama elfica penetrava nelle loro carni putride: sembrava che non ci fosse un limite alla sua capacità di uccidere.

Bastarono pochi minuti, e quando calò il silenzio, più di venti orchetti giacevano a terra privi di vita. Il loro aspetto, già ripugnante in condizioni normali, era ulteriormente peggiorato dalle profonde ferite che li sfregiavano in vari punti del corpo, quasi tutti vitali.

Pareva che la veloce lama si fosse mossa di propria volontà, senza chiedere al possessore altro che di essere sostenuta.

Improvvisamente sentì un dolore lancinante al braccio: doveva trattarsi di un colpo assestato da un orchetto morente. Strinse i denti, si guardò intorno, e non potè fare a meno di sorridere: nonostante tutto, se l’era cavata proprio bene.

 

Il forte dolore al braccio lo risvegliò: muovendosi nel sonno, era andato a sbattere contro la brocca d’acqua che teneva sul comodino. Il colpo doveva essere stato piuttosto forte, visto che della brocca erano rimasti solo dei cocci bagnati e tagliati irregolarmente.

Uno di questi, per via dell’impatto, era finito sul letto e, nonostante le piccole dimensioni, gli aveva provocato un bel taglio sul braccio. Non lungo, forse, ma molto profondo, dava un dolore intenso che partiva dal centro della ferita e si allargava per tutto il braccio. Colava poco sangue, e le lenzuola non erano molto sporche.

Toccò il taglio, e subito ritrasse il dito di scatto, per via del dolore. Poi, dopo aver aspettato qualche secondo che il dolore si placasse, avvicinò nuovamente la mano, prestando però molta più attenzione.

In pochi minuti era riuscito ad estrarre la scheggia di terracotta dal braccio, e adesso la osservava incuriosito. Stava ancora chiedendosi come potesse un oggettino così piccolo causare un dolore tanto grande, quando entrò sua madre.

Il sorriso era quello di sempre, lo stesso che l’aveva svegliato in ogni mattina della sua vita. Un sorriso fresco, spensierato, che non lasciava intendere altro che gioia. Faceva quasi sembrare piacevole il risveglio, e pure la traumatica uscita dalle coperte appariva molto meno tremenda dopo aver visto un sorriso come quello.

Solo che il sorriso sparì in fretta, rimpiazzato da un’espressione a metà fra il sorpreso ed il terrorizzato.

«Cosa ti è successo?», chiese sua madre mentre si precipitava verso il letto. Aveva lasciato cadere per terra le lenzuola pulite che teneva in mano: come tutte le mattine, uscito il figlio avrebbe rifatto il letto.

Arrivata ai piedi del letto, prese tra le mani il braccio del figlio, fissò allibita per qualche istante la ferita sanguinante, poi lo guardò e gli chiese «Kinrul, tesoro, stai bene?»

Il taglio si stava già rimarginando, ed il dolore era scemato. «Tutto bene, mamma, non ti preoccupare», fu la sua risposta.

Lo sguardo della donna tornò a distendersi, e riuscì persino ad abbozzare un sorriso mentre lo rimproverava bonariamente. «Mi hai fatto prendere un accidente, scapestrato! Non smetti di combinare malanni nemmeno quando dormi!»

Come sempre. Sua madre pareva non essersene ancora resa conto, ma Kinrul aveva ormai compiuto quindici anni, l’età dopo la quale i maschi erano considerati adulti. E questo implicava, per lui come per tutti i ragazzi di Ethundel, una scelta.

 

Fin dagli albori della civiltà, o almeno così raccontavano le leggende, le terre di Ethundel erano state divise in due grandi territori: il primo, quello che copriva la superficie più ampia, estendendosi dalle Montagne Ghiaiose dell’estremo ovest fino alla sponda orientale del Galadrun, era detto delle Terre Abbandonate.

Erano chiamate così, beninteso, dalla popolazione dell’altro territorio, quello dove viveva anche Kinrul, ovvero le Terre Felici.

Chi viveva nelle Terre Felici sapeva bene da dove derivasse quel nome: bastava guardarsi intorno! Fin dove lo sguardo poteva arrivare tutto era ricoperto di fine erba e di piante. Gli alberi secolari offrivano riparo dal sole che splendeva alto nel cielo azzurro. Camminando fra i cespugli di margherite si poteva sentire distintamente il lieve canto dei passerotti, che con le loro melodie parevano suggerire il senso di quell’eterna primavera.

Nessuno, se in possesso della capacità di ragionare, poteva immaginare un posto migliore di quello. La maggior parte della popolazione era impegnata nell’agricoltura, ed ogni anno i campi producevano frutti e verdure migliori di quelle dell’anno precedente.

Tutto sembrava quasi la ricompensa per il trattamento riservato dagli abitanti delle Terre Felici alle piante: non vi era in quei luoghi nessuno, nemmeno il più monello fra i monelli, che osasse strappare un fiore da un prato, o cogliere un frutto da una pianta se non ne avesse realmente bisogno.

La natura ricambiava questo comportamento, non comune nelle altre parti del mondo: e così gli alberi nascevano spontaneamente a gruppi di tre, ed altrettanto spontaneamente facevano discendere i loro rami più bassi fino a terra. Il risultato erano delle specie di tende vegetali, riparate da qualsiasi intemperia, che gli uomini abitavano avendo cura, ad esempio, di non accendere mai fuochi al loro interno.

La vita scorreva calma e felice, e a tutti andava bene così. Non proprio a tutti, a dire il vero: se la vita lenta di campagna era quanto di meglio anziani e bambini potessero desiderare, non si poteva dire lo stesso per quanto riguarda i giovani. Appena passati i quindici anni, infatti, molti di loro si mettevano in testa di voler vedere il mondo.

«Cosa vuoi andare a vedere, non c’è niente al di là del Galadrun!», dicevano le madri ai loro figli. «Non lo posso sapere, perché nessuno ha mai visto cosa ci sia dall’altra parte del fiume», rispondevano loro, e partivano. Non ne era mai tornato a casa uno.

E così i figli degli abitanti delle Terre Felici si dividevano ogni anno in due gruppi: quelli che restavano e quelli che partivano. Molti erano coloro che, felici della loro vita e senza curiosità, rimanevano, ma altrettanti erano quelli che se ne andavano.

 

Kinrul era uno di quelli che non erano partiti: la carovana si era allontanata dal villaggio più di due mesi prima, e lui quel giorno stava tra la folla, a salutare con la mano. Il fatto che non fosse partito non deve far pensare, però, che avesse paura del viaggio. Anzi, se ne avesse avuto l’occasione sarebbe partito anche l’indomani.

La motivazione era diversa: lui e sua madre vivevano nella parte delle Terre Felici che, in linea d’aria, era più distante dalla riva conosciuta del Galadrun, cosicché ogni volta era necessario un lungo viaggio per raggiungere il fiume, dove si trovavano le città più grandi.

Era un percorso troppo impegnativo per la sua non più giovanissima madre, che avrebbe inoltre dovuto abbandonare per un tempo eccessivo i campi per andare in città. Dunque, nonostante la sete d’avventura ardesse in lui e gli facesse desiderare la partenza con i suoi coetanei, si era visto costretto a rimanere a casa.

«Forse ho perso l’occasione della mia vita», pensava più tardi, mentre dissodava la terra con una vanga. Il braccio gli faceva male, ma non abbastanza da impedirgli di lavorare. Inoltre non voleva che sua madre si preoccupasse troppo. Avevano già abbastanza problemi per via del raccolto scarso, e non le servivano altri pensieri per la testa.

Kinrul stava ripensando al sogno della notte appena trascorsa, e si rese conto che insieme a lui c’era un compagno. Non l’aveva visto bene in volto, ma nel suo viso non aveva individuato nessuno dei suoi conoscenti. E poi, quei lineamenti erano molto strani, quasi non sembravano umani…

 

Era immerso in questi pensieri quando per il sentiero di fronte a casa passò un carro. Non uno dei soliti carri di mercanti, fatti di legno scricchiolante e carichi di merce colorata, ma un carro scuro, perfettamente silenzioso e ricoperto da un telo nero.

Il conducente, che aveva l’aria di essere esperto nell’arte di passare inosservato, vestiva un mantello grigio fatto di stracci che si intonava perfettamente con la sua capigliatura, disordinata e trascurata. La barba incolta, nera come la pece, spiccava sulla sua pelle, chiara come solo quella della gente del Nord può essere.

Nessun rumore proveniva dal carro, che sembrava trasportare silenzio. Nemmeno il cavallo, dal pelo lucido come la notte, emetteva un solo suono mentre avanzava sui ciottoli del sentiero. Kinrul si era accorto del loro passaggio solo per il fatto che, infastidito da un luccichio simile a quello della luce che si riflette contro un vetro, aveva alzato la testa proprio nel momento in cui il carro passava davanti casa sua.

Guardando meglio, aveva notato che al collo del conducente pendeva un grosso medaglione, forgiato nella curiosa forma di una mano in atto di afferrare qualcosa. La cosa più strana era che, nonostante riflettesse la luce come una pepita d’oro, fosse totalmente opaco.

L’attenzione di Kinrul si concentrò su quell’oggetto, come se il monile stesso cercasse il suo sguardo. Non riuscì a staccare gli occhi dal medaglione finché gli fu possibile vederlo, e anche dopo allungò il collo per cercare di non perderlo di vista. Solo quando il carro ebbe svoltato dietro la collina, uscendo definitivamente dal suo campo visivo, Kinrul riuscì a scuotersi.

Desiderava ardentemente aprire il cancello e mettersi a correre dietro al carro, sperando di raggiungerlo e di riuscire a vedere nuovamente il monile a forma di mano. Anche un solo istante gli sarebbe bastato, pur di vederlo di nuovo. E stava davvero per lasciar cadere la vanga a terra e dirigersi verso il cancello, quando una fitta al braccio lo fece tornare alla realtà.

«Pazzo, dove stavi andando?», si chiese da solo. Non riuscì a darsi una risposta convincente. Ancora scosso e con nuovi dubbi che affioravano nella sua mente, si voltò e si diresse verso casa.